domenica 27 settembre 2020

1919, BAMBINA ISPIRATA - (Poesia dedicata a Maria Lai) - NORA CAPOMASTRO

1919, BAMBINA ISPIRATA
(Poesia dedicata a Maria Lai, per il suo centenario dalla nascita)
Eleonora Capomastro





Cent’anni fa,
da una montagna incantata,
nasce Maria, bambina ispirata.

Piangono gli uomini,
che a sognar non son più riusciti;
tra le grinfie della miseria,
nell’umana condizione impigliati.

Strozza il passo, l’ordito,
diventando prigione;
s’aggroviglia la trama,
nella trappola dell’illusione.

Scorda, l’uomo, la sua provenienza
e la sua destinazione;
scorda, l’uomo, l’Infinito,
nella sua disperazione.

Ma tu, antica bambina,
dagli occhi di eterna scintilla,
sei come jana, d’innocente candore,
che nella notte dell’anima scaglia
un filo ardente, d’azzurro stupore.

Con lungimiranza, un nastro celeste,
che scioglie i confini e i nodi del cuore,
ogni paura e sua ingannevole veste.

Curiosa, disegni i sogni
di un Dio mezz’addormentato,
mentre volano gomitoli
e danzano fili di lana colorata:

geometrie di un luogo
che dicon esserti immaginata,
o, forse, di un mondo,
da cui la gente s’è allontanata.

Giochi, tra terra e cielo,
e io con te appresso;
a tener per mano il sole e l’ombra,
a seguire il Senso, a tracciare il Nesso.

<< Sasso… solco… sole…>>
Sottile è la tua voce nel vento,
<< scure…sale…>>
Sorrido e ti vedo ancora giocare.

E a chi vuol giocare
tu tendi gentile la mano:
s’intreccia il Sentire
e supera il tempo,
poiché l’Infinito non è poi lontano.

Brilla la tua luce,
nel magico Mistero del firmamento.
Tu, eterna sognatrice,
ora fili stupore e sorridi tra le stelle
della chioma fatata di Berenice.

(Eleonora Capomastro, maggio 2019)





27 SETTEMBRE - AUGURI GRAZIA DELEDDA E MARIA LAI! - ORGOGLIO DI SARDEGNA.


27 Settembre, un compleanno che lega due donne sarde molto speciali: Grazia Deledda (1871-1936) e Maria Lai (1919-2013)

Contrariamente alla consuetudine di attribuire il 28 settembre 1871 come data di nascita della Deledda, in quanto così registrato all'anagrafe di Nuoro, preferisco riportare la data reale.
Non era insolito, infatti, che ai neonati venisse assegnata come data di nascita, la data in cui venivano ufficialmente segnati all'anagrafe.
La stessa scrittrice precisò di essere nata nel giorno dei SS. Cosma e Damiano (27 settembre) - motivo per cui il suo nome per intero sarà Grazia Maria Cosima Damiana Deledda - e di essere stata registrata solo il giorno successivo.

Mantenere la data reale per me è molto importante, perché lega ancora più significativamente queste due donne.

Grazia Deledda, che con grande maestria fa vivere i paesaggi della nostra terra e le sfumature delle realtà ad essa legate. Grazia Deledda e la sua abilità nel tratteggiare gli aspetti dei vari personaggi, tenendo i fili di ognuno e ricongiungendoli a creare dei veri e propri arazzi del proprio tempo, tuttora attuali.

Quando nel 1926 la Deledda riceve il Nobel per la letteratura, Maria Lai ha solo 5 anni.

La piccola bimba dei tacchi ogliastrini, che diventerà l'artista amata in tutto il mondo, trascorre la sua infanzia tra Ulassai e Cardedu in cui, per via della sua salute cagionevole, si trova costretta a svernare nei mesi più freddi.

Nella casa degli zii, Maria è lasciata libera di sperimentare, giocando con tele, colori e gomitoli.
Se da un lato svilupperà quello sguardo diverso che la proietterà verso l'Infinito, dall'altro questo "isolamento" la farà rimarrà indietro rispetto ai suoi coetanei, tanto da manifestare non poche difficoltà nell'apprendimento.

Sarà un attento e lungimirante Salvatore Cambosu , a prenderla sotto la sua ala, con una frase che diventerà un mantra per la giovane Maria: 
"Non importa se non capisci, segui il ritmo".

Salvatore Cambosu, cugino di Grazia Deledda; anche qui un altro filo che unisce sottilmente Maria alla figura della grande scrittrice.

E Maria Lai troverà il suo ritmo, un modo particolare e unico di raccontarsi.
Partirà dalla pietra, per arrivare ai fili; fili fisici e fili dell'anima, che saranno in grado di legare la montagna (Link youtube - LEGARSI ALLA MONTAGNA, 1981 Maria Lai).

In questo post, volutamente, non mi soffermerò sui tanti particolari della loro eredità artistica, che meritano di essere affrontati in maniera più approfondita.

Grazia Deledda riposa a Nuoro, nella Chiesa della Madonna della Solitudine, in cui è ambientato uno dei suoi romanzi (La chiesetta della solitudine).
Accanto alla struttura, troverete l'opera "Andando Via", omaggio di Maria Lai alla scrittrice.
Luoghi che ho visitato fisicamente, lungo un filo del Sentire che congiunge Pinuccio Sciola - Maria Lai - Grazia Deledda tra San Sperate - Ulassai - Nuoro
e di cui vi parlerò in seguito, in un post apposito.

Di seguito vi allego alcune foto e dei link, più la poesia nata lo scorso anno (anno del centenario della nascita), dedicata a Maria.

Spero possiate respirare un po' di magia di cui la nostra terra è intrisa.


(9 Giugno 2019 - Chiesa della Madonna della Solitudine, Nuoro - foto personale)


(9 Giugno 2019 - Chiesa della Madonna della Solitudine, Nuoro - foto personale)



(9 Giugno 2019 - portale dell'opera di Maria Lai "Andando Via", omaggio a Grazia Deledda,
foto personale)

Cent’anni fa,
da una montagna incantata,
nasce Maria, bambina ispirata.

Piangono gli uomini,
che a sognar non son più riusciti;
tra le grinfie della miseria,
nell’umana condizione impigliati.

Strozza il passo, l’ordito,
diventando prigione;
s’aggroviglia la trama,
nella trappola dell’illusione.

Scorda, l’uomo, la sua provenienza
e la sua destinazione;
scorda, l’uomo, l’Infinito,
nella sua disperazione.

Ma tu, antica bambina,
dagli occhi di eterna scintilla,
sei come jana, d’innocente candore,
che nella notte dell’anima scaglia
un filo ardente, d’azzurro stupore.

Con lungimiranza, un nastro celeste,
che scioglie i confini e i nodi del cuore,
ogni paura e sua ingannevole veste.

Curiosa, disegni i sogni
di un Dio mezz’addormentato,
mentre volano gomitoli
e danzano fili di lana colorata:

geometrie di un luogo
che dicon esserti immaginata,
o, forse, di un mondo,
da cui la gente s’è allontanata.

Giochi, tra terra e cielo,
e io con te appresso;
a tener per mano il sole e l’ombra,
a seguire il Senso, a tracciare il Nesso.

<< Sasso… solco… sole…>>
Sottile è la tua voce nel vento,
<< scure…sale…>>
Sorrido e ti vedo ancora giocare.

E a chi vuol giocare
tu tendi gentile la mano:
s’intreccia il Sentire
e supera il tempo,
poiché l’Infinito non è poi lontano.

Brilla la tua luce,
nel magico Mistero del firmamento.
Tu, eterna sognatrice,
ora fili stupore e sorridi tra le stelle
della chioma fatata di Berenice.

(Eleonora Capomastro, maggio 2019)

*****




sabato 19 settembre 2020

IS JANAS FUNT JANNAS (Le janas sono porte) - Nora Capomastro

IS JANAS FUNT JANNAS
(Poesia in Limba sarda, de Eleonora Capomastro)
segue traduzione in lingua italiana

(Domus de janas s'Incantu, Putifigari)

                              (Piazza S. Lucia, Muravera (SU), 18/09/2020)


IS JANAS FUNT JANNAS A tui, chi circas arrespustas in sa storia antiga, cun is ogus e sa bucca prenus de oru tralaxus e tesorus, ca mai as'agattai e mai t'ant'arriccai, ma sempri prus t'ant'alluinai. No t'accattas de cantu ses tzurpu, ca no scis a innui castiai, ancora prus pagu, cumenti ascuttai. Accabbadda de fai carraxu chi su misteru de sa Limba bolis cumprendi. Ti depis fai sbuidu, chi is sonus suus bolis intendi; sbuidu, po biri sa Bellesa e s'Infinitu. Circa su ritìmu, circa su sensu! Sbuidus, cumenti cannas sonadas de unu sulidu de bentu. Ascutta sa Limba po cumprendi is Janas: sbuidus, cumenti cannas... "Is Janas funt jannas". Ascutta sa Limba, "Is Janas funt jannas!" sbuidas, cumenti cannas. (Autore - Eleonora Capomastro, Agosto 2019) ***** LE JANAS SONO PORTE A te, che cerchi risposte nella storia antica, con gli occhi e la bocca pieni d'oro, telai e tesori, che mai troverai e mai ti arricchiranno, ma sempre più ti abbaglieranno. Non ti accorgi di quanto sei cieco, poiché non sai dove guardare, ancora di meno come ascoltare. Finiscila di fare baccano, se il mistero della Lingua vuoi comprendere. Ti devi fare vuoto, se i suoi suoni vuoi sentire; vuoto, per vedere la Bellezza e l'Infinito. Cerca il ritmo, cerca il senso! Vuoti, come canne suonate da un alito di vento. Ascolta la Lingua, per comprendere le Janas: vuoti, come canne... "Le janas sono porte". Ascolta la Lingua, "Le janas sono porte!" vuote, come canne. (Autore - Eleonora Capomastro, Agosto 2019)



sabato 12 settembre 2020

GIANNA, LEI ERA MIA SORELLA - CARMEN SALIS

GIANNA, LEI ERA MIA SORELLA
Carmen Salis
AmicoLibro Editore







 "L'ho ammirata, invidiata, combattuta.
Poi, a un certo punto della mia vita, ho riconosciuto la sua tristezza e l'ho amata senza riserve.
Ho capito che quel dolore era paura di vivere.
Quei silenzi improvvisi e lunghissimi erano la sua lotta contro il buio.
E soprattutto ho capito che era inutile travolgerla con la mia voglia di vivere.
Non era egoista, era ostaggio della sua mente.
Non voleva morire, voleva solo smettere di avere una voce dentro la testa che la tormentava.
La gente diceva che era matta.
Ho visto chi l'ha derisa, allontanata, guardata con paura.
L'ho vista e la ricordo. E la rabbia che ho provato allora, oggi è commiserazione"


Si apre così, il libro di Carmen, prima di lasciar vivere di nuovo Gianna, sua sorella maggiore, tra le pagine.
Un percorso, quello di restituire al mondo la sua storia, ma anche di rielaborarla in sè, di certo necessario, per ritrovare il senso al di là del dolore di un'intera famiglia e sua sorella stessa.

Si entra nella fragilissima sfera della malattia mentale, quella a cui, oltre il dolore della condizione stessa, si aggiunge anche lo stigma sociale e l'essere spesso considerate come patologie di serie B. A volte - mi permetto di dire - anche pazienti di serie B.
Quando ti rompi una gamba, è palese e universale per tutti che stia male e abbia bisogno di cure e sostegno. Tutti si danno da fare. Quando invece hai un disturbo psichiatrico, il male è spesso invisibile e incompreso, e tutti (o quasi) ti scansano e ti giudicano, finendoti di affossare.

Ma ritorniamo a Gianna...

Gianna, creatura che amava il mare e ha conosciuto vari tipi di onde.
Gianna, dai lunghi capelli neri ondulati, che passava dai muti abissi della depressione alle altrettanto pericolose, e forse più sottovalutate e meno gestibili, luminose esaltazioni della mania.
Gianna, che sapeva essere fantastica coi bambini e i nipotini.
Gianna, che faceva delle meringhe che parevano regine.
Gianna, che a volte brillava troppo e si bruciava.
Gianna, che ha sofferto di disturbo bipolare.

È importante utilizzare il verbo avere quando si parla di disturbi mentali, e non essere, in quanto l'essenza della persona, va ben oltre alla patologia che la ingabbia e rende la ricerca di equilibrio, una vera e propria lotta.
Una lotta, per sé e per chi vi sta accanto, in cui quasi sempre nonostante tutta la buona volontà, ci si trova spesso soli e impotenti.

Ma Gianna, oltre ad avere un disturbo bipolare, oltre ai deliri e le psicosi, era tanto altro. E questo è giusto che rimanga, dopo tutta la sua sofferenza.

Carmen riesce a raccontarcelo, con lo sguardo di chi riavvolge il nastro e ripercorre la storia a ritroso.
Ripercorrere, per comprendere e tenere le cose più importanti.
Ripercorrere, per liberare e restituire dignità e identità a una sorella "ostaggio della sua stessa mente".
Perché, dopo tutte le distorsioni, le incomprensioni, le difficoltà... 
dopo essersi dati anima e corpo, per impedire che quel fragile cristallo esplodesse, e magari essersi pure incolpati di non aver fatto abbastanza, 
dopo aver visto una propria parte schiantarsi, segnando i propri cari oltre che noi stessi, cosa rimane?

Rimane fermarsi, per poi riguardare le cose a ritroso. 
Accogliere le lezioni che rimangono alla fine, quando la frustrazione per quello che avremmo voluto essere diverso, ci vorrebbe continuare a trascinare in un vortice di dolore.

E invece no.

Carmen è riuscita a prendere quel dolore in mano e donarcelo, con grande coraggio e generosità. Per guarire.
La scrittura in questo caso si è fatta cura per l'anima, via di preziosa consapevolezza, e si farà specchio per chi leggendo vi riconoscerà qualcuno o qualcosa a sé vicino.
 
*****
Ho letto Gianna per tre volte, e ogni volta ho ringraziato.
L'ultima l'ho portata con me, in questi giorni in cui il tempo muta repentinamente, tra forte sole e forti temporali improvvisi.
L'ho voluta portare al mare, quel mare che tanto spesso viene citato nel libro.
E leggendo di lei, ho ripensato ad alcune strofe de "GLI ECHI SILENTI", versi che scrissi vari anni fa sulla malattia mentale.
Vecchi versi sono riemersi, e nuovi mi hanno sfiorato. 
Ho voluto ringraziare Gianna e Carmen, unendo il passato al presente, come un qualcosa che continua a dialogare, oltre il tempo.

                                                              *****
(da GLI ECHI SILENTI, 2014)
In quelle teste svuotate
dalla sofferenza
potevi sentirci 
l'eco del mare,
come in una conchiglia.

Più volte battè l'onda
portando via con sè
un morso di riva.
Non ebbero più terraferma
ritrovandosi alla deriva.

Tu dici:
- Riportiamoli alla realtà,
lanciamoli una cima!

Strattonati,
si sgretolerebbero,
più fragili di prima.

(A Gianna e Carmen, FIORI DAL SALE)

Qualora quei rumori
tornassero dai rombi
del mare d'autunno, 
in cui il sole e le nubi
s'alternano come gli umori,

o i bruni ricci di posidonia
in turbìne di vento
volessero velar di rimorsi
il ricordo dei miei,
tu non ascoltarli.

Non appartengo
più ai gusci vuoti 
di conchiglia.

Io ora appartengo
alla tenue bellezza dell'alba,
respiro nello scintillio
del riverbero.

Io ora brillo,
senza più bruciare.

Qualora tornassero
quei sussurri,
tu non li ascoltare.

Io sono
come il bianco pancrazio:

è l'amore
ad avermi fatto fiorire
dal sale.

(Eleonora Capomastro, Settembre 2020)

domenica 6 settembre 2020

RICAMI DI JANA (A Pietrina) - ELEONORA CAPOMASTRO

 RICAMI DI JANA
(All'artista dei fili, Pietrina Atzori)
Eleonora Capomastro



Se non fosse per le tue amorevoli mani
sarei come stoffa sfilacciata dal tempo.

Discreta, hai tessuto nuovi bordi,
ritagliando ogni doloroso eccesso.
Rammendato i miei strappi in silenzio,
con sorrisi pazienti e fiori di bisso.

Questo dono degli anni ora indosso
camminando con te per la festa,
ogni abisso è un ricamo di jana
che mi orna con cura la testa.

(Eleonora Capomastro - Agosto 2018)

****

SUONI ANTICHI, DI PIETRA E DI CANNA - ELEONORA CAPOMASTRO

SUONI ANTICHI, DI PIETRA E DI CANNA
(Al Maestro Pinuccio Sciola)
Eleonora Capomastro


Sulla scogliera sta un uomo
con gli occhi socchiusi
ad ascoltar la voce del vento.
Figlio della pietra,
ora è immortale,
sopra ogni tempo.

Si è fatto cavo,
ponte e strumento.
Come una canna,
lasciando che il fuori
risuonasse al di dentro.

Tra prati verdi
l’ho visto andare:
l’orecchio intento a catturare
visioni e linguaggi, arcani messaggi,
svelati solo a chi è in grado di sentire.

La mano burbera,
stretta in controluce,
sa riservare grazia gentile
che anima il granito
e un canto produce.

<<Una canna piena
non potrebbe suonare.
Una roccia grezza
non saprebbe parlare.>>
Così egli mi dice.

Mutano e soffrono,
lavorate dalla mano dell’uomo
che in esse ha visto un senso,
sentito un suono.

Visionario artista
che restituisce al mondo
il suo Dono.

Riecheggia la memoria
quando s’alza il maestrale,
su quest’isola
in cui le canne e la pietra
continuano a suonare.

Raccontan
che la Morte non è fine
per ciò che perdura,
ma solo un passaggio
dell’eterna natura.

(Eleonora Capomastro, giugno 2018)

*****


LA DONNA FARFALLA - ROBERTO BRUGHITTA

 LA DONNA FARFALLA
Roberto Brughitta 
Amicolibro editore





Sensibile: la prima cosa che penso, al primo impatto col testo che mi hanno dato da leggere per la presentazione. 
Non conosco ancora Roberto Brughitta, né ho mai letto niente di suo. 
Sensibile: questa è la prima cosa che penso mentre mi accingo a leggerlo, e sarà la prima cosa che penserò quando avrò modo di ascoltarlo alla presentazione del 21 agosto.

Autentico: un'altra parola che ti balza subito alla mente quando hai modo di incontrarlo ed conoscerlo. Non ha timore nel lasciarsi trasportare dalle emozioni e mostrarle nella loro autenticità, senza filtri. E questo forse è uno dei suoi grandi Doni.

Sorrido quando racconta che la scrittura lo sorprende nei momenti più disparati della vita quotidiana. Sorrido, perché conosco bene quella necessità, quella che come dice lui ti fa scrivere perfino sugli scontrini. Perché chi scrive - e intendo chi scrive con questa sensibilità- ha sempre la testa a cavallo tra i vari mondi, le orecchie sempre in ascolto di altro e gli occhi puntati verso l'altrove.
Sorrido nel riconoscere chi è riuscito a far fiorire bellezza dal dolore, sia attraverso la scrittura che attraverso il percorso di vita.

Ma ora passiamo a LA DONNA FARFALLA.

Sin dalla prima pagina, intuisci che un modo di raccontare così non può che appartenere ad un animo di rara sensibilità (odio le ripetizioni, ma stavolta ci stanno tutte).

Subito Roberto ci immerge tra le vie del piccolo paesello di Lamadró, in cui descrive come la pioggia, cogliendolo d'improvviso, faccia sprigionare odori e profumi in un modo del tutto particolare.

Sulla scia pungente di lavanda e lentisco, su quella acre dell'urina dei cani, ad un certo punto quella pioggia si fa strumento e ci trasla su un altro piano, quello contenuto proprio in quella parola particolare, scritta in corsivo mica per caso.

Quegli odori che si spargono casualmente, diventano persone colte all'improvviso, così come la pioggia li ha trovati. E capisci che la pioggia non è pioggia, ma sono bombe e granate.

Paralleli così visionari, ripeto, non possono che arrivare da un animo davvero sensibile.

In questo paesello e più precisamente nella Piazza dalle tegole larghe (e andate a leggere il perché), arrivano i tre carri sgangherati della Compagnia dei Campanelli.

Non svelerò altro della trama della storia, se non in termini di alcuni personaggi e sensazioni.

Del paese possiamo citare Monica che legge le nuvole o il piccolo Riccardo col suo mutismo accompagnato da una notevole (da tanti sottovalutata) capacità di ascolto e di espressione (certe volte servon forse le parole?). Oppure il sognatore Gianluca, o lo zio Oscar...

Tra i personaggi della compagnia ritroviamo personaggi differenti, ognuno con una sua storia e un suo perché.
Possiamo nominare il burbero Tempesta e la compagna Camomilla, oppure i giocolieri Giglio e Liquirizia, ma non possiamo di certo dimenticare lei, la funambola, la Donna Farfalla: Divina.

Quel che posso ribadire è come ogni piccola sfumatura e dettaglio di questo piccolo romanzo, trovi la sua funzione.

E Roberto lo fa con la delicatezza di chi è riuscito a seguire il Sentire in purezza, scrivendo quel che arriva e si lascia raccontare, accogliendolo e ascoltandolo.

In chiusura voglio riportare la poesia che apre il libro.
Versi del caro amico Poeta Giorgio Peddio (un'altra anima delicata).


***
Sei
dovuta cadere
per 
poterti liberare.
Poggiavi
i tuoi piedi
su lunghi fili d'aria.

Il sole
in una mano
e la luna nell'altra
l'armonia
dolce delle acque 
nel cuore.

Leggera 
come foglia
di vento
lasciavi nella notte
un profumo
come di rose
dopo la pioggia.

Erano
le tue catene
fatte di chiare stelle
e spuma marina.

(Giorgio Peddio)

***


L'ESTETICA DELLE PIEGHE - (Racconto) NORA CAPOMASTRO

 

 L'ESTETICA DELLE PIEGHE
(racconto breve)
NORA CAPOMASTRO

(La meravigliosa Kaoru Kobayashi, durante una sua esibizione al Festival della Cultura Giapponese by Events Planning, 11 Settembre 2016)

“Quando il dolore attanaglia l’uomo e lo àncora alla sua fragile condizione, quest’ultimo non riesce a sentire che questo. Si può soccombere o, con fiducia, considerare il tutto come parte di un disegno in eterno divenire: troppo grande per i nostri limitati sensi umani, comprensibile solo non opponendo resistenza al suo fluire e divenendo parte di esso.”

 La mano della fortuna è cieca e non fa distinzione nemmeno tra i più innocenti. Non era stata di certo clemente neanche con la piccola Ishiki che, improvvisamente, si ritrovò orfana a seguito di un tifone che spazzò via il suo villaggio. 
Furono giorni di pianto, in cui si scavarono profonde crepe che segnarono il suo animo.  Gli abitanti del paese più a monte corsero in aiuto dei loro vicini e il caso decise che a prendersi cura di lei sarebbero stati i coniugi Shinkō, anziani mastri cartai. 

Il loro laboratorio si trovava a pochi passi dal centro abitato, tra i gelsi kozo. Adattarsi a quella nuova situazione fu molto difficile. 
Si sentiva riempita d’amore, ma vi era sempre qualche pensiero che la trascinava come un peso, non permettendole di godere del dono del presente. 
La saggia Hikaru le stava vicino senza invadenza, leggendo i suoi pensieri come se potessero parlare. Il suo cuore era incupito dalla preoccupazione per quell’anima in crescita, ma più forte era la fede. 
Ishiki passava il suo tempo tra la scuola e l’aiutare nelle faccende domestiche. Più volte sbirciava dietro le tende, mentre il vecchio Zen pressava i fogli aiutato dalla moglie. 
La cura nel loro mestiere rispecchiava quella che avevano per gli altri. Si perdeva per ore intere, tra i colori delle carte disposte a essiccare, desiderando di averne una tutta per sé. 

Giunse il giorno del suo decimo compleanno. 

Di ritorno dal villaggio, ad attenderla trovò un bellissimo foglio di carta: era poco più grande di un fazzoletto, di un blu mai visto e con delle filature dorate. Sembrava un cielo stellato. 
Abbracciò con gratitudine i due vecchi, che sorrisero bonariamente per esser riusciti a nascondere la piccola sorpresa in serbo per lei.  
Quella gioia così spontanea fu altrettanto fugace: di nuovo l’immagine della perdita dei suoi cari, di nuovo l’abisso che mai si colma. 
Certi vuoti che il passato lascia assomigliano a gorghi che tutto risucchiano, perfino gli attimi belli del presente. 
Gli anziani Shinkō sapevano che questo avrebbe richiesto molto tempo e amore.  
Cenarono in silenzio. 
La compostezza dei gesti talora argina più che la parola. 

 L’indomani la piccola mise il foglio tra i quaderni di scuola. Voleva orgogliosamente mostrarlo ai suoi compagni e uscì di casa in fretta, senza rendersi conto che di lì a poco sarebbe piovuto. 
Al ritorno corse più velocemente che poté ma, una volta arrivata, pianse nel vedere quel regalo prezioso rovinato dall’acqua. Non disse nulla a nessuno, nemmeno a cena, sentendosi in colpa per aver peccato di vanità. 
Così la notte, mentre tutti dormivano, lo stese vicino al camino, sperando che asciugasse presto per non essere scoperta. 
Passata qualche ora, Hikaru si alzò e si diresse verso il focolare. Ishiki singhiozzava in lacrime. Aveva messo la carta troppo vicino al fuoco e alcune scintille l’avevano bruciacchiata e bucherellata in varie parti. 
Abituata a capire senza troppe spiegazioni, la vecchia le asciugò il viso e prendendola per mano raccolse il foglio. 
Si spostarono nella sala che dava a est e lì sedettero a lungo, in silenzio, per il tempo necessario.

L’anziana guardò maternamente la bambina e con delicatezza rara, quasi sfiorasse un’anima, iniziò a piegare il foglio malconcio. «Vedi, bambina mia: in origine siamo fogli lisci, perfetti, senza neanche una sgualcitura. Poi veniamo piegati, aperti, chiusi, ribaltati. Ci riempiamo di solchi senza neanche sapere bene perché. Ogni piega cambia il nostro aspetto, lo plasma». 
Prese un attimo fiato, fermando le mani e osservando le pieghe. 
«Non sempre è facile intravedere il risultato finale. Alcuni passaggi lo faranno sembrare vicino, come già davanti ai tuoi occhi. Poi, a un tratto, quel che penserai sia giusto per te verrà stravolto e cambierà direzione, perché non è quello il tuo arrivo definitivo, non lo è mai. Passaggi in cui troppe pieghe renderanno tutto complicato e confuso e sarà necessario fermarsi. E tu ti ritroverai a dover prendere di nuovo confidenza con la carta. A dover di nuovo capire e imparare, a non opporre resistenza a questo, altrimenti ti strapperai. Ogni piega, ogni cambiamento, è necessario e modella quel che sarà una forma nuova. Ci vuole tempo, fatica e pazienza, ma poi…»
Le sue parole si sospesero in un sorriso eloquente, mentre porgeva una piccola gru alla bambina.
«Ma poi… la meraviglia.» Completò Ishiki. 
Era la prima volta che assisteva alla nascita di un origami. Mai avrebbe detto che dal suo foglio così rovinato potesse scaturire ancora bellezza.
Ormai era l’alba: la luce giocò tra i piccoli fori della carta, pareva un ricamo.

(Nora Capomastro - 2018)

**********************

Il presente racconto mi è molto caro, in quanto segna l'inizio di una riapertura verso il mondo esterno tramite la condivisione di una mia piccola creatura (cosa non sempre semplice per me).

Nell'aprile del 2018, riceve una menzione al concorso Noi e gli altri - CIF di Sestu, con la seguente e sentita motivazione:

***La sofferenza di una bimba per la tragica perdita dei genitori, l’amore di due anziani, gesti preziosi di generosa e muta comprensione.
Racconto tenero e profumato di ciliegi e mandorli in fiore, abilmente strutturato come una fiaba zen, che svela con dolcezza alcune verità fondamentali: il silenzio, la pazienza, la riflessione, la capacità di adattarsi al continuo evolversi della vita. L’accettazione stessa del dolore.
La piccola protagonista è come un foglio di carta, bianco e puro, piegata da un grande dolore, che con pazienza imparerà a resistere agli urti della vita e a trasformare gli strappi in un ricamo, in una visione più ampia che può diventare meraviglia: “Ormai era l’alba: la luce giocò tra i piccoli fori della carta, pareva un ricamo”.***

Link articolo - MEDITERRANEAONLINE.EU

FORSE NON SONO CHE NUVOLA MUTA - Eleonora Capomastro

   "La grande famiglia" anno 1963, René Magritte (1898-1967)

FORSE NON SONO CHE NUVOLA MUTA Eleonora Capomastro Forse non sono che nuvola muta su cui si proiettano forme a proprio piacimento. Forse non sono che il riassunto di tante personali interpretazioni, mille rumorose opinioni, incapaci di cogliere e preservare il cuore di un'essenza. L'espressione di una reale natura che non puó esser castrata da una definizione, né distorta da bocche sacrileghe e invadenti dalla facile e gratuita sentenza. Forse non sono che un casuale aggregato, che per il breve istante chiamato "vita" si condensa. Forse non sono che nuvola, squarciata in cielo dai venti, mentre gli altri cicalano di albe e tramonti disfando i miei contorni. Forse queste lacrime somigliano ad ultimi frammenti ricaduti sulla terra, per insenarsi negli anfratti in cerca dei suoi misericordiosi silenzi. (Eleonora Capomastro - Marzo 2020)
***

venerdì 4 settembre 2020

CARMEN SALIS - LA DANZA DEI FIORI SECCHI

 LA DANZA DEI FIORI SECCHI
Carmen Salis
Amicolibro editore




LA DANZA DEI FIORI SECCHI dà voce ad una delle tante realtà che possono passarci accanto quotidianamente - drammi più o meno silenziosi che spesso si consumano nell’indifferenza - sulle quali al massimo ci si limita a sentenziare, conoscendo sommariamente, e
giudicare, senza realmente soffermarsi ad analizzare e riflettere.

Leggendo la storia di Anna, Silvia e Bibi – nonna, madre, e nipotina – più volte mi è venuto da fare paralleli con situazioni simili o analoghe, e la riflessione che ognuno di noi dovrebbe fare (sia in questa lettura, che nella propria vita quotidiana) è quanto spesso siamo ciechi e sordi al dolore di chi ci sta intorno.

Quanto potrebbe essere diverso, se fossimo capaci di più empatia e meno giudizio? Se ognuno riuscisse, nel proprio piccolo, a fare un po’ suo anche il dolore altrui, proteggendo queste realtà già fragili, che diventano ancora più alienanti e devastanti, in una certa misura anche per merito nostro.
Certo, non si può riparare agli errori degli altri, ma si può decidere di non commettere lo sbaglio di giudicare a priori; si può decidere di fare schermo a quello che è un malcostume comune. Si può decidere di non ledere.

Penso che Carmen nei suoi scritti, persegua una tra le più significative possibilità della scrittura: quella di dare voce a ciò che altrimenti non ne avrebbe. 
LA DANZA DEI FIORI SECCHI tocca il crudo tema della tossicodipendenza, ma non solo. 
Parla d’amore e di dolore questa danza.

Una danza che incatena, privandoci d’energie e rendendoci impotenti – come quelle che legano il rapporto tra Anna e Silvia - ma anche una danza in cui un anello si può ancora spezzare, a patto di percorrere una strada diversa. Un riscatto per sé e per chi da quelle catene non è riuscito a liberarsi.

Parla di come certe crepe, con le fragilità personali e le incomprensioni date dall’incapacità di comunicare e di ascoltarsi - in primis verso se stessi, e poi verso gli altri - col tempo possano diventare voragini ingestibili, anche se di fondo rimane sempre l’amore. 
Un amore sopraffatto dall’esasperazione e dalla rassegnazione, un amore ferito e malato, che spesso si tramuta in odio e rabbia. 
Un amore ferito a tal punto, da riuscire a comunicare la propria sofferenza solo ferendo a sua volta.

“Non resisteva, non ci riusciva. Lo scontro era forse l’unico modo che le era rimasto per comunicare. Se lo domandava perché provava tanta rabbia, perché voleva ferirla, perché detestava ogni sua espressione, ogni indumento che portava, ogni attimo della sua presenza. Risposte non ne aveva. Odiava sua madre, la odiava e basta. Si poteva odiare una madre? ”

Eppure, se fossimo in grado di spogliare Anna e Silvia dai segni della vita, come se fosse possibile per un attimo fermare tutto e cancellare, troveremmo quell’amore. Anche in un fiore secco.
Così si definisce Silvia, così definisce sua madre Anna e sua figlia Bibi.

Mia figlia sarà una perdente come te e come me. Un fiore secco, un fiore non voluto nemmeno da quel Dio che tu credi abbia dato origine al mondo.” 

Le parole che esterna sono cariche di rabbia e frustrazione, oltre che distorte dalla dipendenza.
 
Leggere è un invito a soffermarsi su cosa possa esserci dietro tutto questo dilaniante malessere.

Certi punti sono come pugni nello stomaco, quando si prende coscienza che nella storia di Anna, Silvia e Bibi, siano presenti tanti elementi che si sovrappongono perfettamente a certe realtà.
È provante leggere, ma è giusto proseguire nell’accogliere queste sensazioni, perché tra queste pagine vi è la dolorosa storia di tante famiglie.

Carmen riesce a delineare perfettamente la psicologia delle due donne, distinguendosi tramite l’uso di più punti di vista narrativi. 
Il candore della piccola Bibi e il suo amore incondizionato e non giudicante, emergono dalle pagine del suo diario, a cui affida i suoi pensieri e le sue emozioni.

“I fiori sono destinati a seccarsi sempre, non hanno scampo. Sarebbe meglio essere un albero.”
Parla dei fiori e degli alberi, Silvia, proprio come il fico che può osservare dalla finestra del suo palazzone.

Disegna sui vetri, e una delle tante riflessioni corre tra i pensieri del lettore -

Avrebbe voluto saper disegnare gli alberi, con i rami che si muovono verso l’alto e si intrecciano con le gemme che poi danno vita alle foglie, ma non era capace. I suoi compagni li disegnavano senza i rami, con un cappello ricciuto verde che le ricordava la messa in piega della sua maestra. A lei non piacevano: un albero doveva avere le mani, le dita, doveva arrampicarsi verso il cielo.”-

Forse è anche un po’ compito di chi ha la fortuna di avere radici più forti, offrire un po’ d’ombra e riparo al fiore, in maniera che possa un poco irrobustirsi ed essere capace di donarci la sua bellezza, anche se per sua natura esso continuerà ad essere fragile.

***
Voglio chiudere accostando questa immagine significativa a cui tengo molto, 
a Roberta, 
la Bibi cresciuta,
nonostante tutto.

mercoledì 2 settembre 2020

GENNA DI TAQUISARA - ROBERTO BRUGHITTA

      GENNA DI TAQUISARA
Roberto Brughitta
Amicolibro editore




“Rònkina, un uomo saggio ma anziano di settant’anni (l’età non è casuale), incrocia la sua esistenza con Genna, una fanciulla dal carattere ribelle. Malgrado la reciproca diffidenza iniziale, cominciano un viaggio, il cui scopo non è tanto un andare verso, ma un allontanarsi da.”
(Piccolo estratto dalla prefazione a cura di Andrea Fulgheri)


Rònkina, un vecchio addestratore di cavalli ormai settantenne, convinto di non poter dare più nulla, e Genna, una ragazza diversa, una guaritrice, avvolta dall’infame spettro della superstizione e dei demoni, che spesso si creano proprio negli animi di chi condanna ciò che in realtà non conosce.
Siamo nell’entroterra sardo, tra le aspre rocce dei tacchi ogliastrini, tra grotte e gole, in una natura dalla bellezza incontaminata, su cui si intrecciano le vicende degli uomini.
Roberto ci trasporta in luoghi che chi ha avuto la fortuna di visitare riconoscerà subito.

Rònkina e Genna, due destini apparentemente ineluttabili, in un mondo in cui l’esistenza è condizionata da usi e credenze, che sovente imprigionano e condizionano la vita dei singoli individui: il vecchio, ormai giudicato inservibile e con nulla più da dare (e forse anche convintosi di ciò), destinato a essere scaraventato da Sa Babbaiecca; la giovane, selvatica e schiva, dai fulvi capelli, piccola e sfuggente come una volpe e indomita come i cavalli, conoscitrice di erbe, parole e cure, additata sempre più minacciosamente come bruxia (strega, fattucchiera).

Due sorti già scritte, quasi come un marchio, in quel che emerge come un mondo chiuso contraddittorioin cui l’essere umano è prigioniero del proprio destino segnato, che Roberto fa incrociare, dando il via al tutto: il viaggio verso la possibilità di una sorte diversa.
 
Da destino segnato e avverso, di cui non si possono cancellare tutti i segni, è però possibile  sognare ancora, mirare a qualcos’altro, a patto di avere in sé una grande forza. 
Ed è in quella diversità, in quella ribellione, tanto condannata dalla miope mediocrità umana, che si annida quel quid che fa la differenza (e questo sarà un senso che accompagnerà tutto il romanzo).
Una scintilla a cui è impossibile impedire di divampare – come quella che arde negli occhi ambrati di Genna - un seme a cui è impossibile impedire di germogliare.

“…aveva occhi marrone chiaro con riflessi dorati che li rendevano ambrati, sembravano gli occhi di una volpe. Anche i denti, ma soprattutto i capelli ricordavano l’astuta Liori, la volpe. Quelli che qualche ora prima gli erano sembrati rosso scuro, con le prime luci dell’alba apparivano di un bel rosso acceso. La carnagione del viso era bianca e depositate sul naso e le guance aveva delle piccole lentiggini. Dello stesso candore aveva le piccole mani dalle dita affusolate. Era minuta, snella e agile nella cavalcatura, tanto che l’anziano pensò che fosse, sì, nata davanti a una porta, ma in groppa ad un cavallo”.

Genna, porta in sé l'agilità, la libertà e fierezza della minuta volpe che si muove furtiva tra i boschi, per non farsi vedere dagli uomini.
Conosce i boschi, i luoghi e le piante, si muove tra odori e colori, silenzi e sguardi, ascolta il ventolegge il tramonto, in un mondo quasi del tutto dimenticato che l’autore descrive con capacità, colorando con delicata sensibilità le sfumature dei suoi personaggi, ma raccontandoci anche della malvagità di cui certi altri possono essere capaci. 
Genna e Rònkina riescono ad emozionarci – in certi tratti perfino commuoverci – così come altre figure riescono a contrariarci, indignarci, arrabbiarci. 
E questo contrasto, funzionale alla storia, penso offra un importante spunto di riflessione al lettore.

La superstizione, l’ignoranza, la cattiveria, contrapposti alla diversità, alla paura ma anche al coraggio essere diversi. La purezza, la ribellione, la libertà, la ricerca della vera felicità. 

Come sempre non mi dilungherò sui dettagli della trama, ma sulle sensazioni trasmesse.

Leggendo il romanzo avremo modo di visualizzare paesaggi reali, di tornare a suoni dimenticati, conoscere o rispolverare usanze, miti e leggende. Sarà un viaggio geografico, ma anche nel tempo, che dalle più arcaiche radici dell’Ogliastra si sposterà verso le valli del Cixerri, sino al castello di Acquafredda, dove il mondo pare più in divenire, e incontreremo la Sardegna medioevale, che si animerà tra festività, giochi equestri e pariglie…

Tante sarebbero le cose da dire, ma si rischierebbe di svelare troppo!

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Leggendo Genna mi sono tornati alla mente alcuni versi scritti nel lontano 2014.
Mi permetto di accompagnarli come chiusa di questa piccola recensione, che mai potrà sostituire la bellezza di una vera e propria lettura.

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GLI STOLTI

Per le vie del paese
s'aggirava Vocetta la svampita,
col suo fare stralunato.

Al raziocinio non era avvezza,
che tracotasse di alcuna bellezza
o intelletto,
non avrei mai detto.
Ma credete a me che vi riferisco,
che di fantasia ne aveva un mischio!

Giunse nel borgo una forestiera,
pelle di luna, in veste nera.
Di certo era una fattucchiera,
sposa del diavolo, una megera!
Ed il fulvore della sua chioma
non poteva esserne che l'idioma.

Giurò Vocetta di averla vista
cogliere erbe e farne misture.
Parlar nel bosco con le creature,
e di quei fiori ed erbe strane
farne pozioni,
giacer con Satana e i suoi demoni.

- Subito tutti a imbracciar i forconi!
Tra loro Vocetta infervorata.

S'accinsero alla porta,
una marmaglia scomposta,
non ravvisandosi che dentro le loro teste
v'eran demoni di ogni sorta.

(Eleonora Capomastro, 2014)

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SUONI ANTICHI, DI PIETRA E DI CANNA - ELEONORA CAPOMASTRO

SUONI ANTICHI, DI PIETRA E DI CANNA (Al Maestro Pinuccio Sciola) Eleonora Capomastro Sulla scogliera sta un uomo con gli occhi socchiusi ad ...