L'UOMO DAI FIORI DI LOTO IN MANO (Racconti 2018) - Nora Capomastro

 

L’UOMO DAI FIORI DI LOTO IN MANO
Racconti 2018 - Autore: Nora Capomastro

(Opera di Rajeshwar Nyalapalli)


Era passato molto tempo dai gloriosi anni in cui le opere del maestro Ishiguro venivano osannate, dalla provincia di Aomori fino all’estrema punta meridionale di Kagoshima. La sua fama aveva oltrepassato il Mar Giallo, giungendo in Cina e spingendosi fino alle remote terre mongole.

Ormai alla soglia della vecchiaia, si era ritirato in solitudine, in seguito all’improvvisa morte della sua amatissima moglie - Yuriko, La Graziosa - continuando a dipingere, senza avere più il piacere di mostrarsi in pubblico.

Non di rado capitava di vederli nei loro spostamenti: lei, sempre timida e riservata, pronta a stare rispettosamente un passo indietro al marito, per concedergli il suo spazio senza fargli mai mancare la sua presenza e il suo supporto; lui, uomo di mondo, sempre di corsa, col bisogno impellente di donarsi attraverso la propria arte. Sempre insieme nei loro viaggi, ma d’un tratto la salute della sua amata si fece cagionevole, costringendola a limitare le sue uscite.

La notizia della sua prematura scomparsa scosse l’intera comunità e tutti gridarono alla tragica fatalità.
La Graziosa venne ritrovata annegata, in una fredda mattina di metà novembre, nel lago non poco distante dal villaggio, con un fiore di loto in mano, come se a quest’ultimo avesse cercato di aggrapparsi nel tentativo di salvarsi.

Non era insolito, negli ultimi tempi, che la notte  passeggiasse un poco al chiaro di luna. La aiutava a rilassarsi e a distendere il corpo e i pensieri, prima di rincasare ed abbandonarsi al sonno.
Certamente il suolo limaccioso l’aveva tradita e l’essersi sporta troppo, magari incantata da quello scenario, le aveva fatto perdere l’equilibrio.

Le mille congetture degli abitanti si susseguivano rumorose, ma nel cuore di Ishiguro fu come se una triste verità si svelasse ai suoi occhi, ormai troppo tardi.
Guardò le sue palpebre socchiuse, ormai mute, così come le sue labbra sfumate di lilla.
Poi, posò lo sguardo sulla mano candida che tratteneva quell’unico fiore.
Udì nel suo cuore un terribile tonfo e si maledì amaramente, disperato.





Passarono otto anni.

In quel periodo i campi venivano lavorati per la semina del riso.
Si trattava di un lavoro estremamente faticoso, per il quale molti giungevano dai villaggi vicini. La coltura e la successiva raccolta garantivano un guadagno che, seppur misero, sarebbe almeno bastato a farli campare sino alla stagione successiva.
La manodopera, dunque, non veniva mai a meno, così come il ciclico sacrificarsi in nome del dovere e della necessità.

Ma, alla fine dei conti, quel poco di guadagnato poteva valere quanto quello che veniva sacrificato?
Molti cadevano in questo circolo vizioso, senza neanche accorgersene.
Nei più giovani si conservavano ancora sogni e identità.

Difficile è preservare sogni e talenti, quando si è circondati dal fango.
Solo un folle affermerebbe che la sicurezza di un pasto caldo valga tutto questo.




Il terreno veniva lavorato per bene, per consentire la crescita uniforme delle piantine, poi veniva inondato, per assicurarsi il massimo della produzione.
Il periodo di lavoro più intenso era quello della raccolta.
L’obiettivo, comune a molti, era di racimolare qualche yen per garantirsi qualcosa da mettere sotto i denti durante l’inverno.

Tra questi vi era Naoko.

Era venuta a conoscenza di un maestro che abitava in quel villaggio e, contro il parere dei suoi genitori, che per lei vedevano solo una vita da moglie ubbidiente, partì.
Sentiva di poter trovare in lui una persona che la incoraggiasse a seguire il suo ikigai: la pittura.
Esile e taciturna, con gli occhi neri ben concentrati a terra e la mente proiettata ben oltre quelle umide vasche,
 vedeva quella situazione come un momento di passaggio, cercando di non lasciarsi legare troppo o invadere dalle dinamiche.

Fu così che un giorno lo sguardo attento di Karumi, che in quelle caotiche risaie aveva sacrificato la propria giovinezza per tirar su i suoi figli, si soffermò su quel volto e quelle mani imbrattate dal fango e capì come le loro doti fossero sprecate.
Le due entrarono presto in sintonia e un giorno la donna, dagli occhi lungimiranti, vide compiutezza nel farla conoscere all’anziano pittore.



Ishiguro stava di spalle, seduto sul tatami, di fronte alle sue tele.
I suoi soggetti, da quel lontano novembre, si erano limitati ad una serie ossessionante di loti.

Lontano era il tempo in cui i suoi dipinti erano decantati dai critici per la loro delicatezza. Ora erano pregni di wabi sabi.

<< Un po’ d’acqua fredda laverà e gioverà alla pelle e alle mani. Troppa nuocerà, riempendole di dolori e rovinandole.>>
Esordì, senza voltarsi.

<< Un po’ d’acqua scioglierà il colore, che verrà assorbito dalla tela. Troppa la rovinerà, slavandolo e rendendola inutilizzabile.>>

Disse, mentre asciugava un pennello con un fazzoletto.

<<Il segreto sta nell’equilibrio, nel saper dosare, poiché la virtù sta nella via di mezzo. Così, anche quando sacrifichiamo o doniamo una parte di noi, non dobbiamo mai perdere noi stessi.>>

 Pareva la conoscesse da tempo, senza averla neanche ancora guardata in viso.
La ragazza lo ascoltò con grande rispetto, osservando quelle tele riempite di loti.

 Seguì un lungo silenzio.

 <<Maestro, perché i vostri dipinti raffigurano sempre dei fiori di loto?>>

Il vecchio Ishiguro alzò lo sguardo e si voltò verso di lei, con occhi di colpo di nuovo vivi: nessuno gli aveva mai posto questa domanda in maniera così ingenua. Tutti avevano saccentemente farfugliato sul cambiamento della sua pittura, della sua tecnica. Tutti avevano grattato la superficie, ma quella domanda, nella sua semplicità, era stata in grado di irrompere nei suoi spinosi silenzi, addolcendoli.

Si voltò e con un cenno la invitò a sedersi al suo fianco.

<<Mia cara… ogni cosa può avere più significati, a seconda del senso che noi gli imprimiamo. Se il nostro animo è superficiale, la visione sarà limitata e il dipinto della vita avrà colori semplici e tratti approssimativi. Il nostro sguardo, miope, sarà addirittura convinto che questa visione sia completa! Ma se noi abbiamo un animo indagatore, allora potremo scorgere nelle cose più sensi. Tutto sarà come un lago limpido, di cui saremo in grado di vedere fondo o superficie a seconda del nostro atteggiamento.
Come uno specchio, su cui potremo veder scintillare il riflesso di tanti significati, dai più luminosi e alti a quelli più bui e drammatici.
Il dipinto della vita sarà fatto di mille sfumature e, consapevoli che la visione non sia mai completa, sarà un continuo viaggio alla ricerca della comprensione.>>

Ritornò alla domanda della giovane, come se si fosse perso in quei pensieri.

<<Conoscerai certamente come il loto, nonostante cresca dai fondi fangosi dei laghi, una volta giunto in superficie riesca a sprigionare tutta la sua immacolata bellezza. Non è forse esso il simbolo del Buddha?>>
La giovane annuì intuendo il successivo cambio di tono.
<< Il loto è anche il fiore del silenzio e della dimenticanza, il fiore dell’oblio.>>
Si soffermò un attimo, come a far riaffiorare il dolore.
<< Ecco, io ora dipingo tutte quelle dimenticanze. Dipingo tutte quelle dimenticanze, che da anni mi ossessionano e continuano a porsi davanti ai miei occhi e mai potrò perdonarmi.>>

Era troppo acerba per capire pienamente a che si riferisse; il senso completo di quel discorso restò sempre velato, ma in fondo la cosa più importante fu l’essere stata presente.

Ishiguro la prese sotto la sua ala, affezionandosi. Il suo cammino giungeva ormai alla sera, e lui sentiva avvicinarsi il momento.



Per il diciannovesimo compleanno dell'allieva, avrebbe voluto regalarle un kimono degno della sua sensibilità.
Così contattò i ricchi mercanti della vicina Hokkaido, che inviarono Junichi, il più grande tra i loro figli.

Abituato a viaggiare per il paese, era un tipo sempre in movimento. Certamente doveva esser nato sotto l’elemento del fuoco.

Giunse a cavallo, seguito da una diligenza su cui venivano trasportate le più preziose stoffe.
Nei campi si era fatta l’ora più calda e la giovane Naoko decise di rincasare.
Salutò Karumi e, con le vesti macchiate di fango e i capelli scompigliati, si diresse verso l’abitazione di Ishiguro.

 Entrò con disinvoltura ma, nell’accorgersi della presenza inaspettata dello sconosciuto, arrossì violentemente, quasi a scusarsi del mostrarsi in quello stato.
Fuggì subito a sistemarsi, per rendersi presentabile.

Fu così che Junichi, abituato da sempre a correre, nella fulmineità di quell’attimo sentì per la prima volta il tempo fermarsi. 
L’anziano pittore riconobbe quel bagliore e sorrise tra sé e sé, invitandolo a bere una tazza di bancha.




Passarono mesi, durante i quali Junichi rallentò le corse e riscoprì colori nuovi, perduti nella fretta. Naoko fioriva, proprio come un loto dal fango.
Gradualmente abbandonò il lavoro nelle risaie, per seguire la via della pittura.

I due passeggiavano lentamente, perdendosi nel contemplare la natura, le foglie, i tramonti, i loro occhi.

La stagione in cui le cicale cantano la sera arrivò, insieme a quel giorno speciale.
L'allieva strinse riconoscente il maestro: sulla seta dai colori azzurri e rosa dell’alba, erano raffigurati, secondo il volere di Ishiguro, dei loti. 
Junichi aveva poi fatto ricamare delle gru in volo.

Si dice che, una volta scelta la loro compagna, le gru stiano insieme per sempre e che la loro vita possa durare oltre i mille anni.

 Leggero è il loro volo, fatto di silenzi e parlato nei gesti.




Era così bella con quel sorriso…Pure vestita di stracci sarebbe stata così raggiante da illuminare il cuore!
Così bella con quel colore, quello che solo chi si sente amato e libero emana.
E sempre libera l’avrebbe voluta ammirare, come un qualcosa da amare senza legare.

I pensieri di Junichi si accavallavano l’un l’altro, galoppando insieme al suo cuore indomito.
Bastò un abbraccio di lei, per fermare tutto di nuovo, come se non ci fosse mai stato un prima né un dopo, ma un solo eterno ed inestimabile attimo presente.

L’animo del vecchio Ishiguro aveva trovato un po’ di ristoro nel vedere i due giovani volersi bene.
E poco dopo, nella stagione della bianca rugiada sull’erba, reincontrò Yuriko e capì di non averla mai persa.
Le loro anime andarono in pace insieme, tra i raggi di luna di una notte settembrina.





Senza ormai un legame che la trattenesse ancora ad Aomori, Naoko seguì l’amato nella sua residenza sull’isola di Hokkaido.
Non era abituata a tanto benessere e comodità e la presenza della servitù la imbarazzava.

<< Qui potrai dedicarti completamente alla pittura. Le tue mani non dovranno più conoscere la fatica, e io farò in modo che tu ti senta sempre la mia regina!.>>
Di nuovo le guance di Naoko arrossirono e sorrise, tra il bonario e l’interdetto, per quell’animo così impetuoso. Quel fuoco divampava di colori accesi, mentre lei era semplice e mutevole, come l'acqua.
Sorrise per quelle che considerava sciocche preoccupazioni; aveva già tutto per essere felice e questo le sarebbe bastato.

Talvolta, nell'indomata spinta generosa del donare, si trascura la più spoglia e silenziosa ricerca di essenziale in chi deve accogliere.

Arrivarono i primi freddi e il periodo in cui Junichi riprese in mano gli affari.
Nei suoi sogni desiderava creare una famiglia, ma bisognava lavorare, guadagnare, per avere una base ancor più solida su cui vivere.

Spesso lei lo seguiva nei suoi viaggi. Timida e riservata, pronta a stare rispettosamente un passo indietro, per concedere spazio senza far mai mancare la sua presenza e il suo supporto.
Lui, uomo dal gran cuore, sempre di corsa.
D’un tratto la salute di Naoko si fece cagionevole e si ritrovò a dover limitare i suoi spostamenti, rimanendo sola in casa a dipingere, mentre lui era impegnato col lavoro.


Junichi si assicurava che non le mancasse mai nulla, raccomandandosi con la servitù prima di ogni partenza e riempendola di preziose vesti e doni ad ogni ritorno.
Ma tra quelle mura e in quel cuore, pian piano, si affacciò lo spettro del vuoto e dell’infelicità.


 
Guardò quei kimono e pensò alla gioia del giorno del suo compleanno.
Avevano un senso così diverso, ora...
A che serviva correre, affannandosi nel cercar di costruire un futuro, se poi si perdeva il presente?

Avrebbe voluto parlarne, ma i grandi dolori richiedono tempo per aprirsi ed essere capiti.
Così il suo animo si sentì sfiorire, sperimentando i veli della rassegnazione.

Come un abito che ci si ritrova a provare, senza averlo scelto, e si impara ad indossare: la solitudine. Si veste della tonalità dei silenzi, cucito dalle pause tra una parola e l’altra, dal mutar della luce di due occhi bassi. Sorrisi a cuore amaro, sguardi persi in orizzonti distanti.


Più volte si ritrovava a dipingere sulla grande terrazza delle sue stanze.
Le risaie della provincia di Aomori e i ricordi apparivano lontani, al di là del
 mare.
Pensò alle parole del maestro, come se in quel momento vi riscoprisse un nuovo senso. 

 << Siamo noi ad imprimere il senso alle cose.>> 
Ripeté, a metà tra il ricordo e il reale.

Fu così che lo vide, nella sua stanza.
Il pennello le cadde a terra, quasi avesse visto un fantasma.

Le sue notti e i suoi giorni si fecero sempre più difficili da affrontare.
Per quanto cercasse di trovare
una spiegazione, la presenza del maestro continuava ad angosciarla, come un’ossessione.
Pensò di esser diventata pazza e che quello fosse un modo della sua mente per occupare la sua solitudine.

Ishiguro la guardava con occhi silenziosi, come a farle compagnia tra quelle mura che parevano sempre più vuote, anche quando Junichi si ritrovava in casa.


Avrebbe voluto parlarne, ma i grandi dolori richiedono tempo per aprirsi ed essere capiti; un tempo che mai c’era, per essere ascoltati abbastanza.

Arrivò la stagione dei primi geli e Matsuo, uno dei servi più affezionati, si offrì di accompagnare il padrone in viaggio.
Rivolgendosi umilmente, gli confidò i suoi pensieri: da tempo vedeva la signorina avvolta da un’ombra.
La sua preoccupazione era sincera.
Junichi ringraziò l’uomo, rassicurandolo che ben presto avrebbe potuto donarle più stabilità.
Si era affannato così tanto per questo!
Ma per un attimo si fermò, come se qualcosa stonasse in quelle parole che si era ripetuto durante tutte le sue corse.
Sarebbero ritornati l’indomani e, mentre si addormentò, pensò che avrebbe dovuto abbracciarla ancora più intensamente.




La luce della luna si rifletteva sui primi cristalli di brina. 
Gli occhi scuri di Naoko si lasciavano trasportare da quei riflessi a tratti fatati, a tratti fatali.
Immaginò di catturare quei colori, ma si ritrovò, quasi come un automatismo crepuscolare, a dipingere dei fiori di loto.
I pensieri la riportavano sempre lì, malgrado i suoi mille tentativi di liberarsene.

Persa tra le sue suggestioni, come in cerca di un qualcosa a cui aggrapparsi, rivide il maestro: passeggiava al di sotto della terrazza, vestito di nero, con un fiore di loto in mano.
Lo guardò e amaramente capì le parole taciute durante il loro primo incontro.
Così rumorosi furono il dolore e il senso sordo del vuoto, che si lasciò andare, come una foglia che si stacca dall'albero albero.

La ritrovarono all’alba, riversa per terra, coi capelli e le labbra ancora rosee, bagnati di brina. Tra le mani un candido fiore di loto, rigato di sangue.
Tutti gridarono alla disgrazia, non appena il signorino Junichi arrivò nel villaggio.
Il suo grande sorriso per il ritorno, si tramutò presto in disperazione.

Forse nell’ammirare la luce lunare, si era sporta troppo, e il legno umido e scivoloso l’aveva tradita facendole perdere l’equilibrio.
Le congetture degli abitanti non facevano altro che susseguirsi indelicatamente.

Junichi udì nel suo cuore un terribile tonfo e si maledì amaramente.
I suoi occhi erano stati ciechi e ora non avevano che lacrime.
Ma per fortuna la vita ancora batteva in lei.

Col rispetto di chi sa leggere l'aria, il fedele Matsuo allontanò la folla, caricando Naoko tra le sue braccia.

Nella villa il tempo si era fermato, ma nella mente di Junichi era un divampare di domande sfuggenti.
A che era servito tutto quel correre? Cosa era stato perso nel frattempo? Quanto sciocco era stato!

Le domande e i rimorsi lo ossessionavano follemente.
Non si sarebbe mai perdonato qualora l'avesse nuovamente perduta.

Passarono otto giorni.
La giovane riaprì gli occhi.
Non ricordava nulla, né chi fosse, né dove si trovasse.


(Nora Capomastro, Racconti 2018)








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